La Mindfulness ha le sue radici in antiche tradizioni spirituali; in quella buddista è parte integrante del percorso verso la comprensione dell’origine e della cessazione della sofferenza: è lo strumento attraverso il quale ogni individuo può liberarsi dagli schemi mentali e dagli automatismi di pensiero che lo portano ad aggiungere sofferenza alle naturali difficoltà e dolori di cui la vita stessa è inevitabilmente intessuta (Gunaratana, 2005). Questo genere di consapevolezza, ed il percorso per acquisirla, non hanno una natura e un significato religioso né tantomeno esoterico, sono quindi potenzialmente accessibili a tutti.
La Mindfulness è la consapevolezza che si acquisisce quando si presta attenzione all’esperienza in un modo specifico e determinato:
1. intenzionalmente (si porta deliberatamente l’attenzione su un particolare aspetto dell’esperienza);
2. nel momento presente (quando la mente, coerente-
mente con la sua propensione e il suo stile, ha la tendenza a proiettarsi nel passato o nel futuro, la riportiamo al presente);
3. in maniera non giudicante (l’attitudine è quella di accettazione nei confronti dei contenuti dell’esperienza che emerge momento per momento) (Kabat-Zinn, 2005).
Per quanto possa sembrare ovvia o addirittura banale, semplice nell’intenzione come nella sua essenza, la pratica di acquisizione di una tale consapevolezza richiede un percorso lungo e faticoso. Si tratta, infatti, di allenare la mente, in modo sistematico, a prestare attenzione e a rivolgersi verso i contenuti dell’esperienza, superando e, per così dire, scardinando i radicati automatismi con i quali, pressoché inconsapevolmente, si è abituati ad evitare e contrastare tutto ciò che percepiamo e giudichiamo come negativo o difficile (Gunaratana, 1995). La pratica della Mindfulness rappresenta quindi un grande e fecondo potenziale per colui che vi è iniziato sia in termini di sviluppo di insight che di trasformazione personale, in quanto promuove l’elaborazione di nuove prospettive e di nuove “lenti” attraverso le quali osservare la propria esperienza (Siegel, 2009). All’interno del suo contesto originario, nella tradizione buddista, la Mindfulness era insegnata come elemento chiave di un sistema di pensiero integrato, volto a riconoscere la natura della sofferenza umana e ad entrare in relazione con essa.
Lo stile di meditazione che oggi viene solitamente insegnato per la pratica della Mindfulness deriva dall’approccio buddista tradizionale (Theravada) del Vipassana, o meditazione della “chiara visione”. Etimologicamente, infatti, Vipassana deriva da passana che vuole dire “vedere” e vi, che è prefisso associato alla “profondità”, “all’andare a fondo”. In realtà con il termine Vipassana si designano le due forme di meditazione prevalenti nel buddismo: Samatha o calma concentrata e Vipassana o chiara visione. Nel suo complesso, quindi, la meditazione Vipassana ha come obiettivo la coltivazione di uno sguardo profondo, che genera discernimento, rispetto alla realtà e alla nostra mente. In lingua inglese il termine Meditazione Vipassana viene solitamente tradotto “Insight Meditation”, e l’utilizzazione del termine “Insight”, proprio del vocabolario psichiatrico e psicoterapico, esprime affinità e contiguità del sapere buddista con quello psicologico.
Scopo primario delle pratiche buddiste di consapevolezza è, infatti, quello di destrutturare le “impalcature” mentali, fatte di convinzioni arbitrarie e distorsioni, che ci separano da una percezione chiara e da una conoscenza profonda della nostra mente. E la meditazione Vipassana è la tecnica proposta per mettere in atto questa destrutturazione.
Ma che cosa vuol dire in senso specifico meditare, e in che cosa consiste questa pratica? Se, infatti, nel linguaggio corrente la meditazione è “una profonda riflessione della mente intesa a ricercare la verità, le ragioni, il senso e gli aspetti di qualche cosa” (Zingarelli, 2000) o “pratica religiosa cattolica che consiste nel concentrare il proprio pensiero, illuminato dalla grazia, intorno alle verità della fede” (Zingarelli, ibid) la meditazione nel buddismo è, da un punto di vista “tecnico”, il tentativo costante di mantenere uno specifico assetto di attenzione. Nella meditazione Samatha (o di concentrazione) la consegna è quella di focalizzare l’attenzione su un unico oggetto (solitamente il respiro, ma può anche essere una parte del corpo o un suono) e tutte le volte che ci si accorge che l’attenzione è stata assorbita da un altro oggetto mentale o da un’altra sensazione, la si riporta, con pazienza, sull’oggetto prescelto (Pensa, 1994).
Questa attività diviene una sorta di antidoto alla tipica, abituale, quasi automatica proliferazione mentale di idee, di sensazioni, di emozioni e tende a favorire gradualmente calma interiore e stabilità mentale. Il secondo tipo di meditazione, la meditazione Vipassana, è strettamente correlato al primo: grazie alla stabilizzazione mentale promossa dalla concentrazione, la consapevolezza non resta fissa su un oggetto, ma cerca di essere vigile e attenta in modo equanime a tutto ciò che rientra nel suo campo (pensieri, sensazioni, emozioni) e il meditatore tende ad adottare una posizione neutrale nei confronti di tutto ciò che va e che viene nel suo flusso di coscienza.
La meditazione Vipassana consiste in un insieme di esercizi psico-fisici che hanno a che vedere con la “presenza”. Il termine in lingua Pali che designa que- sto insieme di esercizi è Bhavana che viene dalla radice bhv che significa “esserci”, “crescere”, “diventare” ed è sempre usato in relazione alla mente, significa quindi “coltivare la mente” (Comunicazione Personale, Dario Girolami). Nella meditazione Vipassana al praticante viene chiesto di prendersi un determinato lasso di tempo e trovare un luogo nel quale le “distrazioni” siano ridotte al minimo. Trovare una posizione comoda, seduta o sdraiata, che gli permetta di mantenere una situazione di immobilità per un certo lasso di tempo, ed essere consapevole del flusso del respiro e delle sensazioni cenestesiche collegate all’inspirazione e all’espirazione. È quasi inevitabile che, inizialmente, nell’arco di tempo di solo qualche respiro la mente si distragga: il compito è allora quello, una volta preso atto del fatto di aver perso il focus di concentrazione, di riportare la mente alle sensazioni del respiro. In questa pratica c’è un oggetto di concentrazione, un punto di riferimento, un’àncora vitale dalla quale la mente si allontana e dalla quale viene ripresa.
Il fatto di stabilire nel respiro questo punto di riferimento per la concentrazione rende possibile l’osservazione delle distrazioni, il flusso costante e incessante dei pensieri e delle sensazioni, la tendenza della mente a sfuggire al controllo volontario e a spostarsi velocemente e quasi impercettibilmente su diversi oggetti di attenzione.